Giuliano Mariano, Zizilone

la camicia rossa e il pantalone di velluto – di Mariagrazia Trivigno

Il sole si alza sempre vigoroso in cielo il martedì mattina, sfoggia il vestito della festa anche lui, perché è il martedì dopo Pentecoste. Giorno di pranzo da gran signori, e anche se è un giorno qualsiasi della settimana, non c’è nessuno per i campi a lavorare, o nelle botteghe, tutti disertano per quel giorno il proprio mestiere. E’ il giorno della processione. Perché quando il sole è ben alto in cielo Lui s’affaccia dal portone della Chiesa Madre, che è poi il punto più alto di tutto il paese, e da lì si gode lo spettacolo del suo piccolo regno terreno. Lo portano a spalle quegli omaccioni con le mani brune e gonfie di fatica, è il loro guardiano e protettore. È ovunque, sui vetri delle macchine- con l’adesivo dal lato dell’effigie, cosicché si possa appiccicare dall’interno-, sui comò, nei grembiali, nelle tasche, nei portafogli. Si rasenta l’idolatria. Da quelle parti a spalle ci portano anche gli alberi. Gli omaccioni reggono il legno della Statua, anche quello del martedì è legno, ma in altra forma, è solo una forma appunto, data all’inafferrabile.

foto di Augusto Viggiano

 Se portare l’albero è corteggiare una ragazza, il legno del martedì è tutt’altra faccenda, ha due occhi limpidi, incastonati nella bellezza di un volto incorniciato da capelli scuri e da un elmo di soldato romano; in contrasto con tanto candore, lo scempio visibile di un pugnale. Il verde, il rosso e il giallo sono i suoi colori. E sarebbe menzogna dire che il paese si tinge di quei colori solo il martedì in omaggio al Patrono, perché il giallo è sempre nelle ginestre e nel sole, il verde è sempre ovunque intorno, il rosso sempre presente nell’affezione di un popolo intero. San Giuliano s’affaccia lento in cima alle scale della Chiesa grande. Applauso e fragore di banda. E pure in quella stessa mattinata, nel vociare felice della piazza, si è visto a un tratto l’altro Giuliano. In comune con il Santo ha solo il nome e il fatto che anche lui il mondo lo veda dall’alto nello stesso giorno. Ogni anno si dice sia l’ultimo, chi lo sa, forse questa volta passa il testimone. Gli piace farsi tirare la calza, dice qualcuno. E anche quell’anno compare nella piazza del paese. Compare con l’abbigliamento che è solito indossare quel giorno, la camicia rossa e il pantalone di velluto nero. Forse quella divisa gli porta fortuna. Qualche amuleto occorre pur averlo per avventurarsi sprezzante fino a quaranta metri di altezza, a mani nude. O forse, più banalmente, è furbizia contadina: il velluto aderisce meglio al tronco. Sia come sia, quell’incertezza, salirà, non salirà, finisce di colpo, perché lo vedono comparire in piazza così vestito, e lo sanno tutti che andrà su anche quell’anno. Ha lo spirito di gatto selvatico, e nessuno può niente contro lapropria natura. Sin da ragazzo gli era naturale arrivare in cima ai fusti del bosco a prendere rami secchi e legna da ardere. È l’imbrunire. Poggia le mani sul tronco, abbraccia la base del ceppo più che può. La base è così larga che un uomo solo non basta a cingerlo tutto. 

Migliaia di nasi per aria seguono ogni suo movimento, la bassa musica accompagna incalzante. Mani, tronco, fune, gambe, mani, tronco, fune; fino a quando il tronco si fa più stretto, e giù le funi, lanciate nel vuoto, mani, gambe, mani, gambe; fino a quando arriva ai pioli dell’innesto, solo braccia, solo gambe. Applausi. Resta per un po’ appollaiato in quell’indistinto frondoso. S’intravede la camicia rossa lì in mezzo, ha raggiunto il mazzo di rose, fissato all’estremità dell’agrifoglio come un diadema. L’indimenticato eroe delle scalate accarezza tutta la parte di paese che riesce a vedere, e la vertigine lo coglie per tanta bellezza che gli muore negli occhi.

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